I libri li scrive la gente: il rapporto tra creatività e commercio.
Vi propongo una riflessione su uno dei soliti temi di cui si discute spesso. Un'idea un po' diversa (spero) nell'ambito dei classici discorsi su arte, scrittura, commercio ed editoria.
Si vendono libri brutti, e non si vendono (o non si leggono) i libri belli. Questa è una lamentela tipica da aspirante scrittore, intendendo come tale una persona che vorrebbe lavorare nel mondo dell'editoria o della creatività in generale, ma che da questo mondo si vede respinto per mille motivi (che adesso non ci interessano).
La verità ovviamente è un po' più complessa. La realizzazione e vendita di un prodotto commerciale segue determinate regole, e queste regole si riassumono essenzialmente in una sola: l'investitore (editore o produttore o quello che è) deve guadagnare (ergo: gabbare gli incauti consumatori) attraverso l'oggetto su cui ha investito il proprio denaro (il vostro stupido libro). Quello che non è giudicato economicamente interessante (facilmente vendibile) non viene prodotto e smerciato, punto. E se questo sistema non vi piace basta che investiate da voi i vostri soldi nel vostro libro che non vuole leggere nessuno, e quando sarete diventati poveri di sicuro cambierete idea (o lavoro).
Eppure, nonostante l'arte commerciale (tutto quello che leggete, vedete, ascoltate o comunque acquistate) non sia vera arte, intesa cioè come libera espressione creativa, io ricordo con piacere e quasi con affetto alcuni libri, film o album della mia ancor più giovinezza (sono ancora giovanissimo, mi pare di averne già parlato ^^). In particolare un libro o due e un disco o due mi hanno colpito a tal punto da influenzarmi, da spingermi cioè e pensare in un certo modo e a impostare la mia vita in una certa direzione.
Ma che senso ha questo? Come può un pacchetto di caramelle con sopra due tette (potrei dire un best seller o un colossal, per me è lo stesso) cambiarvi la vita o comunque insegnarvi qualcosa? Ok, le tette sono sempre tette, ma chiariamo un po' la situazione su cui sto riflettendo: perché una cosa realizzata a esclusivo fine commerciale seguendo leggi di mercato e strategie di marketing può tornare ad assumere un valore artistico? Come può un Bigmèc trasmettere un sentimento e come è possibile che un paio di Naik colpiscano profondamente la nostra immaginazione?
Vediamo qualche eventuale possibilità:
Perché io sono un coglione: questo in effetti è vero nel 99,9% dei casi: qualcuno monta un progetto commerciale dotato di valore intrinsceco pari allo zero (una cagata, per chiarire) e comunque ci saranno persone su persone che ci vedranno dentro chissà cosa, e chissà perché ne resteranno affascinati. Adesso vi parlerei male di certe trilogie cinematografiche per cui la gente sembra impazzire, ma poi mi sabotano il blog per cui meglio che sto zitto.
Perché da ragazzino sei più influenzabile e meno esigente: effettivamente tutti i film, libri e canzoni che ho amato di più appartengono alla mia adolescenza. Arrivo a credere che gli anni '80 fossero l'epoca d'oro del cinema che oggi è praticamente morto e sepolto visto che anche i kolossal di maggiore successo io li trovo orrendi. Ma forse ero solo io che se negli anni '80 vedevo un tizio con la frusta laser che per catturare i fantasmi costruiva un'automobile che viaggiava nel tempo (li ho mischiati un po' tutti) mi sembrava di trovarmi davanti a chissà cosa, mentre tutto quello che si inventano oggi mi fa sbadigliare.
Perché per davvero era meglio prima: negli anni '80 un film o un libro costavano TOT, e se sbagliavi e non vendevi forse potevi ancora farne un altro. Oggi i libri non vendono un cappero e fare un film costa 20 volte TOT, e se le cose ti vanno male le persone che hai sbancato ti fanno fare una brutta fine.
Perché qualcuno è davvero bravo: certi autori riescono a produrre cose vendibili, che allo stesso tempo sono valide e interessanti. E in effetti specie nel cinema me ne viene in mente più d'uno. Nella letteratura ci sono ovviamente io, strano solo che le mie cose vendibili e valide non le voglia leggere nessuno.
Rimane però un'ultima ipotesi, che poi è proprio l'idea che mi ha spinto a scrivere questo post.
I film e i libri hanno successo quando assecondano il gusto del pubblico, e questo è innegabile. C'è insomma una sorta di bello collettivo, un desiderio sociale che cerca nuove storie e nuovi racconti che accontentino le sue aspettative. E forse è proprio da questo meccanismo che nascono le storie affascinanti che ci colpiscono più nel profondo: scrivendo quello che piace alla gente si può scoprire in cosa consiste il gusto collettivo della nostra epoca, e con esso definire meglio noi stessi e l'essere umano di oggi.
L'artista che propone un nuovo oggetto in cui possiamo riconoscerci è destinato a piacere e ad avere successo. E questa in fin dei conti è una delle chiavi con cui si può creare un vero capolavoro: analizzare il nostro tempo, capirlo e ricostruirlo secondo un canone artistico.
Troppo complicato? Non lo so, forse. Allora provo a fare un esempio:
Magari nel 1980 o no so bene quando la gente sognava un progresso scientifico che ci desse un controllo più grande sul mondo e sulla nostra vita. Una macchina con cui risolvere tutti i nostri problemi e che ci consentisse di cambiare il destino da sfigati che ci perseguita. Qualcuno ha percepito questo sentimento, si è inventato una Delorean che viaggiava nel tempo, ed ecco che è uscito un film magari leggero magari commerciale ma che dopo 20 anni la gente ancora ricorda e rivede con piacere. Ma non è stato il film a piacere al pubblico di adolescenti dell'epoca (oh, a me è piaciuto, ok? ^^); era il pubblico ad aspettare un film del genere, e chi lo ha ideato e realizzato non ha fatto che accontentare il desiderio degli spettatori.
In fin dei conti, il succo del discorso è che la nostra creatività nasce dalla visione del mondo che in questo momento ci piace abbracciare, mentre le storie che scriviamo raccontano noi e la nostra vita, come singoli e come società.
I libri li scrive la gente, insomma. Che poi, detto così, mi pare un concetto fin troppo ovvio.
Simone